Interesse generale e interesse locale:e se introducessimo il bicameralismo?
Nicola Pini, presidente Giovani liberali radicali ticinesi
(Pubblicato in Corriere del Ticino, 11 ottobre 2010, p. 2)
“Interesse locale o interesse cantonale: questo è il problema” avrebbe potuto affermare William Shakespare se solo fosse vissuto nel Ticino contemporaneo e si fosse occupato di politica anziché di letteratura. Anche al più umile degli osservatori, seppur privo del genio dell’autore inglese, balza infatti agli occhi come la tensione fra interesse generale – in questo caso cantonale – e interessi particolari – siano essi locali o regionali – sia una costante della politica alle nostre latitudini. Una tensione inevitabile, ma paradossalmente legittima, che si manifesta con cristallina evidenza nell’attività parlamentare: tra i deputati al Gran Consiglio, infatti, non mancano certo rappresentanti regionali e comunali.
La rappresentanza regionale nel legislativo ticinese è cosa voluta e garantita: la maggior parte dei partiti, infatti, regola i suoi eletti tramite il tradizionale meccanismo dei circondari elettorali, un espediente formale adottato allo scopo di assicurare un’adeguata e proporzionata distribuzione territoriale dei propri deputati. La rappresentanza comunale – intesa quale istituzione, il Comune – è invece frutto di una variabile meno controllabile, quella elettorale: in Gran Consiglio siedono così una decina di sindaci (più o meno il numero di donne presenti nello stesso parlamento), ai quali occorre aggiungere un’altra decina di municipali per un totale di una ventina di membri di esecutivi comunali, vale a dire più del 22% del totale dei deputati (una percentuale di poco superiore a quella degli avvocati, per intenderci). Una massiccia presenza che, seppur legittimamente, non è esente da conseguenze politiche. Si veda, in questo senso, la discussione sulla revisione della Legge sull’approvvigionamento elettrico (LAEl), che ha visto alcuni deputati scendere in trincea per contrastare la proposta del Governo di dimezzare – secondo il più classico dei compromessi elvetici – una tassa sull’energia elettrica riscossa dai Comuni (la detta privativa): battaglia conclusasi sì con l’abolizione di quest’ultima, ma con la contemporanea istituzione di un’altra tassa – non dimezzata! – sull’utilizzo del suolo pubblico. Vittoria! Non per il cittadino, però, il quale non vede diminuire i costi dell’elettricità.
Si pone qui quello che potrebbe essere definito il dilemma del parlamentare: il deputato cantonale nell’esercizio del suo mandato deve portare avanti le rivendicazioni del proprio comune e della propria regione, oppure deve pensare unicamente agli interessi di tutto il Cantone, cercando poi di persuadere i suoi conterranei della bontà di un’eventuale decisione contraria al suo luogo di provenienza? I due approcci, come detto, sono entrambi a loro modo legittimi. Da qui la mia provocazione: perché non istituire anche in Ticino, analogamente a quanto avviene a livello federale, un sistema bicamerale con una camera del popolo e una delle regioni o dei comuni, riproponendo dunque su scala cantonale la differenziazione tra Consiglio Nazionale e Consiglio agli Stati? Perché non dividere i 90 granconsiglieri, immaginando da una parte i 60 rappresentanti del popolo, rivolti tendenzialmente al perseguimento dell’interesse generale, e dall’altra invece i 30 rappresentanti dei Comuni e delle Regioni – magari sfruttando ulteriormente i nascenti Enti regionali di sviluppo istituiti dalla Nuova politica regionale – tendenzialmente impegnati nella difesa degli interessi particolari? Sperando evidentemente che la navetta – così si chiama la spola fra le Camere di un argomento sul quale non c’è convergenza – non faccia naufragare i dossier più importanti, o che questi non conducano sistematicamente a un’eventuale seduta plenaria – la conferenza di conciliazione a livello federale – che ricondurrebbe all’esatto punto di partenza. Sono, questi, due rischi concreti: vale la pena correrli? Al lettore l’ardua sentenza.
Nel frattempo non resta che affidarci e fidarci dell’onestà intellettuale e della (buona) coscienza politica dei deputati eletti, ricordando comunque loro che gli interessi particolari si difendono innanzitutto perseguendo l’interesse generale: solo così, infatti, un politico può acquisire la statura e l’autorevolezza necessarie per superare il dilemma del parlamentare, mettendosi nella posizione di poter votare coscienziosamente e liberamente seguendo la propria convinzione e agendo politicamente di conseguenza, scegliendo dunque di volta in volta se difendere in parlamento l’interesse particolare oppure se persuadere i propri concittadini della necessità dell’interesse generale a scapito di quello particolare.