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La svolta per una politica dei fatti
GIACOMO GARZOLI, NICOLA PINI
Speciale Elezioni – La Regione del 26 marzo 2015
Nicola Pini
Candidato al Consiglio di Stato per il Plr
1 Si dice manchi oggi in Ticino una ‘cultura politica’. Condivide?
La cultura politica non può scindersi dalla cultura democratica, la quale non può sopravvivere senza i partiti, che a loro volta non possono sopravvivere senza il coinvolgimento dei cittadini. Il pensiero liberale e democratico deve dunque tornare ad aprirsi e a riproporre con forza i suoi valori fondanti. E qui non penso solo a libertà, responsabilità, solidarietà e giustizia, ma soprattutto al gusto del dubbio e del dialogo, all’approfondimento, alla tolleranza e al rispetto, sia di chi la pensa diversamente sia delle istituzioni, alla collegialità, alla trasparenza, alla voglia di costruire. Solo così rimetteremo in sesto una democrazia purtroppo oggi malaticcia.
2 Come giudica i rapporti fra Canton Ticino e resto della Confederazione?
Buoni, ma da coltivare maggiormente. Da un lato la Confederazione fatica a capire alcune peculiarità del Ticino, dall’altro il Ticino tende a ricercare sempre delle scorciatoie. C’è chi dice che bisogna battere i pugni sul tavolo per farsi rispettare da Berna, come se l’arroganza pagasse. Io credo invece che dobbiamo presentarci a Berna con argomenti, proposte e persone credibili, magari anche con alleanze puntuali con altri Cantoni: solo così si è ascoltati a Berna. Ho già iniziato a lavorare in questo senso, incontrando consiglieri di Stato di altri Cantoni e portando in Ticino Pierre Maudet, che prima o poi vedremo in Consiglio federale. Tornare a un’empatia vitale è la strada, senza accuse velate e piagnistei.
3 Ticinesi vittime o autolesionisti?
Il ticinese, dopo un passato di coraggio e senso dello Stato, sta vivendo una crisi di fiducia – in se stesso e negli altri – a causa delle false identità, delle denunce strumentali e delle promesse da marinaio portate avanti dall’antipolitica. Si tende così al disfattismo e all’aggressività di chi crede che siano sempre gli altri a doverci salvare la vita (lo Stato) o che siano altri che ce la avvelenano (gli stranieri, l’Europa). Mai come oggi, però, abbiamo la necessità di prendere in mano il nostro futuro, senza paura di rimetterci in discussione: finite le rendite di posizione in ambito economico, finanziario e turistico, sta a noi decidere che Ticino vogliamo. Io lo voglio libero, ottimista, orientato al futuro, aperto e competitivo.
4 Come si conserva l’autonomia cantonale? Cosa non funziona oggi nel federalismo?
Il federalismo è basato su chiari compiti delegati ai Cantoni, che hanno un propositivo margine di decisione. Sempre più, la Confederazione tende a occupare mansioni che prima non le competevano, col risultato di applicare soluzioni che vanno bene a Zurigo ma non sono altrettanto valide in Ticino o nel Giura. Dall’attenzione a tutte le diversità, ora il federalismo tende a omologare, il che è negativo. Credo nel principio della sussidiarietà, inteso come lo svolgere il compito al livello istituzionale più funzionale e prossimo al cittadino: e questo non solo tra Confederazione e Cantoni, ma anche tra Cantoni e Comuni.
5 Favorevole o contrario agli Accordi bilaterali con l’Ue?
Favorevole. Che poi si possano sistemare alcuni aspetti è chiaro: come in ogni rapporto con gli altri, ogni giorno è buono per migliorare. Dobbiamo combattere l’effetto sostitutivo, il dumping salariale e il traffico parassitario là dove ci sono, ma non possiamo fare a meno degli Accordi bilaterali. Anche se impopolare, occorre ribadire che in Ticino la disoccupazione sì aumenta, ma meno rispetto a chi ci circonda; che sì dal 2008 i frontalieri sono aumentati di 18’000, ma che i posti di lavoro in più sono stati 28’000 (10’000 sono dunque andati a residenti); infine che il salario mediano dal 2002 è aumentato di 700 franchi. Chi dice che queste sono cose scontate imbroglia i cittadini e mette a repentaglio il futuro del nostro Paese.
6 Valore aggiunto. Ci faccia un esempio.
Abbiamo diverse aziende nell’ambito dell’elettronica e della meccanica, come nel life sciences e nel biomedicale. Dobbiamo poter attirare e creare quelle aziende innovative che sapranno rilanciare la nostra economia uscendo da quella prigione in cui si è rinchiusa dove il solo “valore aggiunto” sembra essere la manodopera a basso costo. Ma non è facile, perché non c’è la coda di imprese virtuose e le idee geniali non cadono dagli alberi: per questo dobbiamo continuare a investire massicciamente nella formazione, nella ricerca e nelle start-up.
7 Più o meno prestazioni dello Stato e perché?
Non è questione di più o meno, ma di come e quando. Lo Stato deve investire in salute e istruzione, ricerca e innovazione, cultura e lavoro, senza togliere nemmeno un franco, anzi aggiungendone. Invece di sparpagliare contributi a tutti, anche a chi non ne ha (più) bisogno, lo Stato deve fornire aiuti mirati e al contempo favorire la creazione di posti di lavoro con l’intento di appianare le diseguaglianze sociali.
Non cediamo all’antipolitica
Mi dispiace leggere che per il presidente del partito socialista Saverio Lurati avere due liberali o due leghisti in Governo sia la stessa cosa. Per me avere un socialista o un verde non lo è. In un Governo composto da più partiti e persone e dal quale devono emergere proposte, riforme e visioni, non si può fare astrazione dai compagni di viaggio. Altrimenti si abdica al ruolo stesso della politica, preferendovi la sola gestione del proprio orticello.
Ora più che mai è il momento di porre le basi di un progetto fatto da una politica pulita, seria, che formi i giovani al senso civico, alla responsabilità e ai valori democratici e repubblicani, ai quali io credo. Un progetto politico per uno Stato che permetta alla sana imprenditorialità di svilupparsi e che al contempo assuma un ruolo attivo per impedire gli abusi nel mercato del lavoro e favorire il dialogo fra parti sociali. Uno Stato laico e tollerante, con una scuola pubblica di qualità. Uno Stato che garantisca la giustizia, in tutti gli ambiti, con una socialità mirata. Uno Stato che valorizzi i suoi funzionari e non permetta che vengano chiamati fuchi. Uno Stato animato da una politica progressista e aperta, agli altri e al futuro. Una politica tanto coraggiosa da riattivare gli oltre 1000 edifici industriali dismessi, tanto visionaria da liberare le strade dal traffico andando oltre le misure sui posteggi e tanto moderna da battersi per la parità di genere e l’interculturalismo.
Ora più che mai è il momento di riaffermare al centro della politica non solo il senso dello Stato, ma anche la decenza istituzionale, il principio della legalità e una cultura politica del confronto e del compromesso. L’antipolitica non è solo inerzia politica, ma è degrado della società: sdoganamento dell’insulto e del pubblico dileggio di chi è diverso o semplicemente di chi la pensa diversamente, sfiducia nelle Istituzioni, trionfo della demagogia e dell’indifferenza. Quell’indifferenza che è la morte non solo della democrazia, ma dell’uomo stesso. Liberalismo, democrazia e socialismo hanno in comune il rilievo e la valorizzazione della personalità umana. È questo un valore fondante della politica, determinante per cambiare rotta. Possibile che gli errori del passato ci condizionino tanto? Possibile che ci si sia spinti tanto oltre da nemmeno più considerare chi condivide gli stessi valori, mettendo tutti i politici sullo stesso piano? Non è forse anche questo un cedimento all’antipolitica? Ma allora cosa succederà dopo il 19 di aprile? Continueremo su strade parallele e con i paraocchi? No! Il mio è un appello, nemmeno fine a se stesso, o a me stesso, è un appello alla consapevolezza del vortice nel quale arrischiamo di cadere se i sentimenti e le sensibilità più nobili dell’uomo non riusciranno a prevalere. Chissà che da questo colpo di reni non nasca veramente un nuovo progetto politico per il Ticino. Le elezioni del 19 aprile sono l’occasione per riscattare il nostro Paese, nessuno dovrebbe restare indifferente.
Corriere del Ticino, sabato 21 marzo 2015
Basta disfattismo, ripartiamo!
Tra aperitivi, pacche sulle spalle e sparate grossolane, la campagna elettorale dimentica la sua caratteristica principale: il confronto politico sulle visioni. Si appiattisce su ciò che appare più pagante elettoralmente, con un’inquietante tendenza di molti a imitare, con qualche sfumatura, chi ha vinto le scorse elezioni. Si chiede la fiducia dei cittadini, ma in verità si cerca di ingannarli. Io non ci sto. Perché se oggi non dici la verità, domani non sarai libero di fare il consigliere di Stato. Non farai politica e privilegerai gli inciuci ai ben più nobili compromessi. L’ho imparato lavorando accanto a Laura Sadis un modello quanto a lavoro, rigore, spirito critico e onestà intellettuale: un metodo che non tradirò per qualche like in più su Facebook. Anzi. In questa campagna abbiamo il dovere civile di riaffermare che la politica contro (gli avversarsi politici, il governo, gli stranieri, i frontalieri, Berna, l’Italia, l’Ue) soffocherà il nostro Paese. Che l’antipolitica – sempre più trasversale – è deleteria perché mina la responsabilità individuale, sfalda la società e piccona la fiducia nelle istituzioni, una fiducia che dovremo recuperare tramite il primato della trasparenza e l’inderogabile rispetto della legalità. Dobbiamo avere il coraggio di riaffermare che la politica della chiusura, fisica (dai muri ai contingenti) e mentale (dall’intolleranza a una xenofobia strisciante e pericolosa), impoverirà culturalmente, socialmente e anche economicamente il nostro cantone. Dobbiamo batterci anche contro il conservatorismo. Quello di parte della destra, che vuole un ritorno al passato, ma anche quello di una parte della sinistra che vuole conservare privilegi non più attuali. Con un atteggiamento conservatore forse congeleremmo il presente per un po’, ma non per sempre. Perché in un momento di grandi cambiamenti, dove le rendite di posizione si stanno esaurendo – piazza finanziaria, turismo, ex regie federali –, la vera risposta è guardare avanti. Lo abbiamo fatto negli anni Sessanta e lo dobbiamo fare adesso. Andando oltre le vecchie logiche e contrapposizioni regionalistiche (quasi potessimo esistere gli uni senza gli altri) per costruire una Regione Ticino forte che possa ritagliarsi un posto nel mondo. Senza negare la nostra identità, dalla quale gettare con consapevolezza ponti verso altre culture e altri popoli. Altri popoli da accogliere, purché interagiscano, si confrontino, rispettino gli altri e le leggi. Andando oltre le divisioni che purtroppo esistono ancora tra uomo e donna per abbattere il soffitto di cristallo che c’è ma non si vede, portando avanti un cambiamento culturale nella società, che passa dal ruolo dell’uomo e che va incentivato da alcune misure non solo “per lei”, ma anche “per lui”. Andando oltre la scolarità obbligatoria, perché in un mondo in rapida evoluzione il posto fisso non esiste più: la nuova frontiera è dunque la formazione continua, da coordinare, sostenere e incentivare. Andando oltre la sola quanto fondamentale “libertà di” (di fare, creare e intraprendere) perseguendo anche la “libertà da”: dalle paure, dai condizionamenti – da qui l’importanza non solo di una scuola pubblica forte, di qualità, integrativa, che coltivi i talenti senza perdere nessuno per strada, ma anche della laicità, intesa come il primato della ragione – e soprattutto dai bisogni, perché se non hai un lavoro, o se lo stipendio non ti permette di arrivare alla fine del mese, ne va della dignità stessa dell’individuo nella società. Non c’è libertà senza solidarietà: ricordiamocelo prima che la coesione sociale, conquista e forza del nostro Paese, si sfaldi del tutto. Perché allora sì conosceremo le macerie, le lacrime e il sangue. Ripartiamo non è uno slogan, ma un atteggiamento, quello di chi è stufo della demagogia, del disfattismo, dei complessi di inferiorità mascherati con la spavalderia; quello di chi sa che il futuro può essere nostro solo se continueremo a parlare tra di noi e con gli altri.
La Regione, sabato 21 marzo 2015
A lezione da Maudet, enfant prodige ginevrino
C’è chi ha una risposta a tutto, e chi ascolta. Nella vita come in politica. Nicola Pini , candidato al Consiglio di Stato nelle liste Plr, ha deciso d’iscriversi nell’elenco dei secondi, iniziando la propria campagna elettorale a fianco di Pierre Maudet , consigliere di Stato liberale radicale del Canton Ginevra. Enfant prodige – oggi ha 37 anni – della politica ginevrina, Maudet è arrivato sino a Mendrisio, l’altra sera, per raccontare ai ticinesi come ci si confronta con un Stato confinante (nel loro caso la Francia), come si gestiscono i frontalieri, ma anche come si combatte la criminalità. E ultimo, si fa per dire, come si limita il contagio del populismo (dalle loro parti è attivo il Movimento dei Cittadini). È nato nel 1978 e ventuno anni dopo era già nel Consiglio comunale della città di Calvino. A 33 anni viene eletto sindaco. Come ha fatto? «La solidarietà e l’amicizia federale sono alla base della Confederazione» ha premesso Maudet. Poi, sollecitato da Pini su cosa pensa del Canton Ticino, ha aggiunto: «Il Ticino è lontano e il voto del 9 febbraio ci ha divisi. Sembrate un Cantone che non sa cosa vuole, ma rifiuta le difficoltà e si tiene solo i vantaggi. Magari dopo aver bussato a Berna». Capito ora come ha fatto? Dice pane al pane e vino al vino. È diretto e, al contempo, sa farsi ascoltare. Il populismo? Una ‘brutta bestia’, certo, ma «la prima cosa che abbiamo fatto, all’interno del Plr, è stata l’autocritica». Già. Il mercato del lavoro e la frontiera? Ginevra ospita ogni giorno 80’000 frontalieri (più i vodesi… ), ma sa combattere gli abusi con l’applicazione dei contratti collettivi di lavoro e con la mediazione costante delle istituzioni. E ancora, la collaborazione con la Francia, Stato centralista, non è scontata ma necessaria. Stracolma la Cantina Agustoni Stoppa dove di solito si ospita la poesia. Lunedì scorso s’è parlato di ragione, libertà, apertura e responsabilità. E di metodo, che conta assai come ha ricordato Nicola Pini candidato che sa anche ascoltare. Perché è nel rispetto reciproco che s’instaura un nuovo rapporto di fiducia.
La Regione, 4 marzo 2015 (articolo originale)
«Le incoerenze della Lega sono note»
Una nuova pace del lavoro
L’abbandono della soglia minima del cambio franco-euro ha di colpo rifocalizzato l’attenzione sul mercato del lavoro in Ticino. Tema di per sé già alquanto sensibile, che di colpo sembra però esplodere. È ormai divenuta un’abitudine diffusa, soprattutto in politica, quella di far riferimento a un singolo evento d’attualità per individuarvi improvvisamente la causa di ogni male, evitando però di affrontare i problemi strutturali.
Fanno certo scalpore le misure volte a contenere i costi messe in atto da alcune aziende nel nostro cantone, misure penalizzanti per i lavoratori: l’aumento dell’orario di lavoro, la riduzione di vacanze e salari (da percentuali negoziabili a percentuali oggettivamente meno sostenibili) attestano del pericolo di un peggioramento delle condizioni di lavoro nel nostro cantone. D’altra parte vi sono aziende che davvero soffrono a tal punto la situazione venutasi a creare da valutare la possibilità di delocalizzare le proprie strutture di produzione: e questo non per aumentare i profitti, ma per restare in piedi. Il problema va affrontato tralasciando esagerazioni e reazioni passionali.
Nel passato il nostro Paese ha costruito un modello economico fondato sulla capacità delle parti sociali di dialogare e da questo dialogo, oggi, dobbiamo ripartire.
Le istituzioni devono farsi parte attiva nei conflitti più acuti, ricercando la mediazione e soprattutto impedendo gli abusi che in queste situazioni sono sempre in agguato. Fa dunque oltremodo piacere sapere dell’esito positivo della mediazione avvenuta ieri con la consigliera di Stato Laura Sadis che è riuscita a mettere al tavolo rappresentanti di Exten, sindacato e maestranze. Questo è l’approccio svizzero alla pace del lavoro: uno degli elementi essenziali della stabilità politica e sociale del nostro Paese che ha permesso il raggiungimento di conquiste sociali e materiali per nulla scontate. Questa forma di compromesso elvetico, fondato sulla percezione delle esigenze di padronato e lavoratori, in cui la ragione e il buon senso sono il motore di soluzioni condivise poiché ben ponderate, nella storia ha dato ottima prova di sé. Già in passato la Svizzera non si era arresa alle ideologie, mettendo in campo le sue forze migliori per cercare di capire e di capirsi, per garantire la dignità di chi il lavoro lo fornisce e premiare l’intraprendenza di chi fra mille difficoltà lo crea. Perché, ribadiamolo, uno non può esistere senza l’altro. Gli uni liberi di fare, gli altri liberi dai bisogni.
Solo dal dialogo può scaturire una nuova soluzione. Una soluzione che non può essere lo status quo, perché le condizioni sono cambiate e dunque anche aziende e lavoratori devono cambiare. Le aziende sono chiamate a un senso di responsabilità sociale che forse si era un po’ perso negli anni scorsi, i lavoratori a capire che i tempi sono davvero difficili e che alcune condizioni non sono purtroppo più garantite. E la politica, abbandonando quel ruolo da cenerentola che spesso le va così comodo, deve smetterla di perdere energia nel creare frizioni e fomentare paure. Quelle energie sarebbe meglio investirle nel promuovere attivamente una nuova pace del lavoro che rispecchi il carattere più autentico dello spirito elvetico di cui così spesso tutti quanti andiamo orgogliosi, come anche nel promuovere nuove professioni, nuove modalità di lavoro e nuove rotte di sviluppo economico.
La Regione, sabato 28 febbraio 2015
La priorità è unire lavoro, formazione e territorio
Su Fare Impesa è uscita un’intervista doppia con il consigliere nazionale Fabio Regazzi, leggetela in allegato. Per sostenere l’economia occorre semplificare, promuovere l’imprenditorialità (dobbiamo prendere in mano il nostro destino) e attuare una politica di sviluppo territoriale lungimirante.