I partiti politici sono in crisi. A tal punto che il Club Plinio Verda si è provocatoriamente posto la domanda, dedicandovi una mattinata di studio, se possa esistere una democrazia senza partiti. Se per Togliatti erano la democrazia che si organizzava, oggi i partiti sono senz’altro messi a dura prova da una società sempre più liquida (e con sempre meno liquidità). Faticano a confrontarsi con la fine delle ideologie e il generalizzarsi di un modo di pensare sempre più individualista che mette in difficoltà l’associazionismo tutto, compreso quello sportivo. Faticano ad abituarsi alla personalizzazione, alla velocizzazione e alla semplificazione – spesso tendente alla banalizzazione – prodotte da una mediatizzazione quasi orwelliana. Con una politica che, intendiamoci, fa la sua parte, ma è sempre più impegnata a rincorrere la visibilità piuttosto che le soluzioni, a cercare di piacere piuttosto che di convincere, a denunciare piuttosto che risolvere. Una politica che prende a martellate la propria credibilità e legittimità, minando l’essenza stessa della democrazia rappresentativa in cui viviamo. Una politica paradossalmente dominata dall’antipolitica, sempre più crescente, trasversale e sembrerebbe – ma non ci credo – pagante.
Un’antipolitica che – lo ha spiegato alla sessantina di presenti il sempre apprezzato Oscar Mazzoleni dell’Osservatorio della vita politica – se oltralpe è all’insegna dell’antiestablishment, qui in Ticino si declina proprio nell’antipartitismo, nel mettere sempre e comunque alla berlina i partiti e le loro espressioni formali e informali. Se è vero che essere membro di un partito non deve essere un merito preponderante (e qui degli errori in passato sono stati commessi), ora siamo all’opposto: essere di un partito è pregiudicante. “Quasi che i partiti siano un’associazione a delinquere” ho sentito dire più volte da Franco Celio, e non – dico io – un insieme di persone che si rivedono – anche con qualche sfumatura – in una visione del mondo. O meglio ancora, per dirla con Gianfranco Pasquino, uno dei massimi politologi italiani e ospite d’onore alla mattinata di riflessione, “delle associazioni volontarie di uomini e donne che alle elezioni presentano liste, programmi e candidati condivisi”. In tutta trasparenza e mettendoci la faccia, cosa non scontata all’epoca dei blog anonimi dove tutto o quasi è permesso in nome di una libertà che non è più partecipazione, ma delazione. Organizzazioni volontarie che, ha spiegato il relatore, pur se in difficoltà non stanno sparendo, stanno anzi trovando una nuova dimensione spaziale, formandosi a livello sovranazionale. Anche perché i partiti presentano delle specificità funzionali che nessun’altra organizzazione può vantare e che ne garantiscono la sopravvivenza. Infatti i partiti svolgono
- la funzione di reclutamento, che permette il rinnovamento e la continuità;
- la funzione narrativa e pedagogica, con i partiti che cercano di spiegare cosa è la politica e di trovare spiegazioni e soluzioni anche complesse;
- la funzione di rappresentanza, nel paesaggio mediatico e nei consessi istituzionali, di un determinato pensiero, interesse, ideale;
- la funzione di accountability, splendido termine anglosassone per esprime il dovere di spiegare cosa è stato fatto da parte dell’eletto e il diritto di premiare o sanzionare da parte dell’elettore;
- la funzione di garantire la successione nel tempo, tramite un costante processo di selezione interna democratica.
Tutte funzioni che permettono ai partiti, come detto, di sopravvivere. Pasquino – provocando la gioia di molti presenti – lo ha detto forte e chiaro: i partiti esistono e continueranno a esistere, perché sono i soli che possono garantire nel tempo un governo “accettabile” – il termine è il suo – della cosa pubblica. Ed è possibile – e auspicabile – che i partiti migliorino. Le risorse di questo possibile miglioramento sono secondo Pasquino già all’interno dei partiti stessi, che devono però sapersi rinnovare, non tanto nelle persone, ma soprattutto nei metodi e nei contenuti, senza paura di mettersi in discussione. La crisi, in fondo, non è tanto DEI partiti quanto NEI partiti. Un miglioramento che, ha ricordato Mazzoleni, oggi i partiti cercano di ottenere tramite una maggiore personalizzazione dell’azione politica (mettendo dunque in avanti i cosiddetti “tenori”), un rafforzamento organizzativo, la riscoperta delle tradizioni militanti, un ritorno delle ideologie e un riorientamento tematico.
E quindi? Quindi non molliamo. Battiamoci per un partito con nuove strutture e con più democrazia interna vera. Per sempre più coinvolgimento e trasparenza. Per una rinnovata scuola di politica. Per un partito che sappia essere popolare ma non populista. Che evolva e cambi pelle ma non perda il DNA, come fosse un uomo in un nuovo mondo. Che non si scoraggi se l’air du temps premia altri approcci più roboanti e di chiusura, perché alla lunga il sistema, il lavoro, la coerenza e il coraggio pagano. Per un partito che non perda il contatto nel e sul territorio, perché la capillarità è più solida e meno volubile rispetto all’immagine. Che sappia spiegare ai giovani che essere in un partito non vuol dire esserne fagocitato, strumentalizzato o schiacciato, ma al contrario contribuire ad animarlo, per animare – a specchio – la nostra bella democrazia, fondamento della nostra società.