La “Rocinha” – Favela di Rio

Un giorno qualsiasi nella favela

Nella Rocinha di Rio de Janeiro, la più grande baraccopoli di tutto il Sudamerica

Nicola Pini

(pubblicato in Azione, 19 agosto 2008, p. 27)

 Scendo dall’auto – uno degli oltre 20’000 taxi di Rio de Janeiro – e sono ai piedi della Rocinha:  mi trovo davanti ad una montagna di case variopinte che, sovrapposte disordinatamente, sembrano arrampicarsi sempre più su, sino al cielo, eguagliando quel Cristo Redentore – il Corcovado – da poco diventato una delle sette meraviglie del mondo e da decenni simbolo di Rio de Janeiro. Camminando per le viuzze della favela, strette e caotiche, le mie sensazioni sono ambigue: oscillo tra l’impressionato e il curioso. Certo, se avessi saputo che un fucile era puntato su di me e che quei bambini che giocavano innocenti con gli aquiloni colorati segnalavano al tiratore di non premere il grilletto, sarei stato pure terrorizzato. La mia salvezza? Stare con Emerson, giovane abitante del luogo (non il giocatore del Milan): sono pulito, dunque, tanto vale conservare la pallottola per un altro. Subito salta all’occhio una delle particolarità della favela, vale a dire il suo carattere comunitario: tutti si conoscono, o meglio riconoscono, solo gli amici possono accedervi. Nessun altro, nemmeno la polizia: “Qui comandano i trafficanti di droga – sentenzia Emerson – e la polizia è pagata per non entrare”. Quando entra, invece, lo fa in spedizioni armate allo scopo di arrestare i narcotrafficanti e la conseguenza è sempre la stessa: una cruenta sparatoria con diversi morti, tra cui pure coloro che si trovano nel posto sbagliato nel momento sbagliato, che cadono colpiti da pallottole vaganti. Tuttavia, non si può dire che la criminalità serpeggi all’interno della favela, anzi, a tal punto che, scherzosamente, mi si dice che il Banco do Brasil della Rocinha è l’unica succursale della banca che non sia mai stata svaligiata. In effetti, se da un lato le vicinanze della favela sono pericolosissime per i turisti ma anche per gli abitanti degli altri quartieri di Rio, dall’altro all’interno della Rocinha i trafficanti hanno costituito una struttura parastatale che esercita un controllo sociale secondo una specie di diritto comunitario: “se rubi a qualcuno del posto ti tagliano la mano, se non la testa” precisa il mio accompagnatore.

Dopo un qualche centinaio di metri ci fermiamo ad un ristorante, è ora di pranzare: entriamo e comandiamo una dobradinha, uno spezzatino di carne e fagioli. Mi accorgo all’istante che la cucina è in mostra e tutti gli inservienti, dal cuoco alla cameriera, portano i guanti e la cuffia igienica: alla faccia della baraccopoli! Dopo aver bevuto un cafesinho, Emerson mi carica sul retro di una mototaxi – ne circolano circa 2 mila – e incarica il guidatore, senza patente e senza casco, di scorrazzarmi per la favela. Né la guida spericolata, con moto che mi passano a destra e a sinistra, né il clacson azionato sistematicamente tengono però a freno il mio sguardo curioso e, durante il tragitto, noto con stupore lo studio di un dentista, un negozio di TV, una sala giochi, un bancomat e…un McDonalds! Quando scendo dalla moto mi accorgo di essere nel punto più alto della favela e il panorama che mi si svela davanti agli occhi mi toglie letteralmente il fiato: vedo il Corcovado, il Pan di Zucchero (una montagna a forma di Panettone), la spiaggia di Copacabana. “È la miglior vista di Rio, qui” sentenzia il mototaxista, e io non mi sogno neanche lontanamente di smentirlo. Non a caso lo stato ha più volte cercato di cacciare gli abitanti da quel luogo stupendo e finanziariamente interessante, pure mettendo a disposizione dei prefabbricati in altri siti, ma loro, i favelados, non se ne vanno. Abbassando la sguardo, però, mi accorgo della presenza di una villa enorme, con più stabilimenti e piscine: “È la scuola americana – commenta Emerson – dove stanno i ricchi figli di papà. Qui a Rio, il povero e il ricco stanno vicini, vicinissimi”. In effetti, giusto per citare un altro esempio, solo una strada separa i moderni e lussuosi appartamenti di San Conrado, il quartiere più caro di Rio, e la spiaggia di fronte, occupata, nelle caldissime domeniche brasiliane, dagli abitanti della Rocinha, mentre i ricchi inquilini preferiscono spostarsi sino alla spiaggia di Ipanema. Una differenza enorme rispetto alla più livellata Svizzera: in Brasile la forbice sociale è larghissima, o sei ricchissimo o sei poverissimo, mentre la classe media è minima. La nostra discussione è però interrotta da un’auto che, dopo aver proseguito con andatura incerta, si ferma a pochi metri da noi: un uomo, che non avevo notato, consegna della droga alla donna al volante. “I ricchi…ci disprezzano, ma se vogliono la droga…” mi sussurra un tizio, che subito aggiunge “non guardare, non vogliono che si guardi”. Visto che di pallottole in corpo non ne voglio, distolgo all’istante lo sguardo, con indifferenza e omertà, ma Emerson rilancia l’argomento: “Fare gli spacciatori, qui, è la scelta più facile, si guadagnano tanti soldi: si dice che il giro d’affari di una settimana è di 5 milioni di Reais (all’incirca 3 milioni e mezzo di franchi). Ne conosco molti: da bambini giocavamo sempre assieme, poi hanno fatto una scelta diversa dalla mia…ma non per questo non siamo più amici. Solo non voglio saperne nulla dei loro affari. Hanno bei vestiti, il portafoglio pieno e belle donne, ma io preferisco l’onestà”. Una scelta coraggiosa, difficile, lodevole, quella di Emerson, 26 anni, disoccupato, due figli a carico. Ma, purtroppo, non è una decisione presa da tutti, anzi. Non sono tutte rose e fiori, qui: viste panoramiche, McDonalds e cuffie igieniche a parte, la povertà regna sovrana, è difficile dire di no ai soldi facili.

Ci dirigiamo, a piedi, verso casa sua: le vie sono strettissime e, a volte, ci dobbiamo disporre in fila indiana per passarvi. Un labirinto pullulante di gente, un termitaio. Case in piedi per miracolo, rifiuti sparsi, rumore assordante, cavi elettrici ovunque. Entrati in casa, però, lo scenario cambia: benché la casa sia piccolissima – ma, tanto, si vive tutto il tempo fuori, in strada, con la gente – il suo interno è pulitissimo e accessoriato, un bel bagno, una cucina pulita, una televisione con tanto di lettore dvd. La madre di Emerson, da poco tornata dal lavoro, ci sta preparando la cena e quello che mi racconta costituisce uno spaccato di vita finanziaria di un abitante della Rocinha: “Sono fortunata, ho un buon lavoro, guadagno sui 1000 Reais al mese, quando il salario minimo è di 350 Reais; ma 600 li assorbe l’affitto, senza contare l’elettricità. Mi tocca vivere con 300 Reais al mese (200 franchi circa)”. No, non sono proprio tutte rose e fiori, qui.

Eppure, quando dopocena ci rechiamo alla Scuola di Samba prima e in una discoteca poi, di tristezza non ne vedo negli occhi delle persone. Anzi. Ovunque mi giri scorgo persone felici, che ridono, scherzano, si divertono e, ovviamente, ballano la samba e il forró. Una serata bellissima, allegra, spensierata. Quando sottolineo enfaticamente questa condizione di felicità del popolo brasiliano a Emerson, la sua domanda mi mette decisamente in scacco matto: “Ma com’è che la ricca Svizzera, dove tutti hanno un letto e da mangiare, è tra i paesi con il più alto tasso di suicidi?”. Altre priorità, altri bisogni, altri obbiettivi, gli rispondo, ma mi accorgo che il messaggio non è passato. Fortunatamente, una ragazza mi toglie dall’imbarazzo chiedendomi di ballare. Il rovescio della medaglia, Emerson, il rovescio della medaglia.

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