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It's a grainy black and white picture that you might have seen before, 13 men sitting on a steel beam, eating lunch with their legs dangling above a 1930's New York skyline at a stomach churning height.   And until recently, the famous picture, sometimes referred to as the "Men on the Beam" picture, was shrouded in a mystery of sorts -- the name of the photographer was never known, or often misattributed. It turns out that a photographer with a colorful past as an one-time actor, auto racer, wrestler, hunter, fisherman and pilot by the name of Charles Ebbets shot the picture in 1932 after he was hired to chronicle the Rockefeller Center's construction during the Depression era.    REUTERS/Bettman/CORBIS

Nascita e sviluppo della legislazione sul lavoro

Il periodo natalizio permette, fortunatamente, di consacrare qualche ora in più alle proprie passioni: mi sono così tuffato nella stimolante ricerca storica di Vanessa Bignasca, “La legislazione sul lavoro in Ticino tra eccezioni e resistenze (1877-1914)”, edita dalla Fondazione Pellegrini Canevascini.

Una regolamentazione, quella del mercato del lavoro, che partì dalla preoccupazione dello sfruttamento del lavoro infantile che, prima dell’approvazione a livello nazionale della Legge federale sulle fabbriche nel 1877, smosse singoli Cantoni, a cominciare da Zurigo nel 1815, in questa direzione. Il Ticino se ne occuperà con oltre mezzo secolo di ritardo, in particolare grazie a due Deputati liberali radicali del Mendrisiotto, Giuseppe Gobbi e Francesco Botta, che il 22 aprile 1873 depositarono una mozione – poi accolta all’unanimità dal Gran Consiglio – per regolamentare il lavoro dei fanciulli nelle fabbriche, con particolare attenzione per l’età e la durata del lavoro. L’applicazione – che ebbe solo un debole eco sui giornali e cadde miseramente già nel 1875 – stabilì un massimo di 12 ore lavorative al giorno per l’insieme dei lavoratori nelle fabbriche e affibbiò dei compiti di vigilanza sulla salubrità degli stabilimenti industriali alle autorità locali e distrettuali. Inoltre, il Cantone vietò il rilascio del passaporto per l’emigrazione lavorativa ai ragazzi di età inferiore a 14 anni, soglia diminuita a 12 anni per decisione del Gran Consiglio.

Ad ogni modo, l’interessante e approfondita ricerca storica di Vanessa Bignasca indaga non solo gli antefatti e l’inizio della regolamentazione del lavoro a livello nazionale – anche a seguito del consolidamento delle competenze federali scaturite dalla revisione della Costituzione del 1874 – ma anche la definizione del Regolamento cantonale d’applicazione dell’insieme della legislazione federale sul lavoro nel 1888, la nascita nel 1902 della Camera del lavoro e, infine, la revisione della legge federale, avvenuta nel 1914 ma applicata solo dopo la fine della Grande Guerra. Oltre a farci incontrare anche diversi attori liberali radicali attivi in questo senso – come ad esempio le società operaie liberali, il Deputato Brenno Bertoni, autore a inizio Novecento di un progetto di legge cantonale sul lavoro che non ha poi avuto buon esito per diverse ragioni, e il Consigliere di Stato Giovanni Rossi, che introdusse le ispezioni in fabbrica da parte di un funzionario cantonale (nell’occorrenza il suo segretario) – lo studio ci permette da un lato di seguire l’evoluzione delle normative sul lavoro, dei settori progressivamente coinvolti e delle relative modalità d’applicazione e, dall’altro, di approfondire la percezione di tali legge, come anche le resistenze attive e passive a tali disposizioni.

E qui, viene da commentare, la situazione sembra essere radicalmente cambiata. Se nel periodo indagato si può constatare una certa difficoltà e ritrosia a regolamentare e controllare rispetto ad altre realtà svizzere, oggi il Ticino si caratterizza per una regolamentazione e un sistema di controlli fra i più all’avanguardia a livello nazionale: basti ricordare che oggi, in Ticino, sono stati definiti la quasi totalità dei Contratti normali di lavoro decretati in Svizzera e che, sempre alle nostre latitudini, il 25% dei datori di lavoro viene controllato annualmente, a fronte di una media svizzera del 5%. Qualcosa si è mosso dunque!

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Approvati gli edifici dismessi 2

Approvate dal Gran Consiglio le proposte per rivitalizzare gli edifici industriali dismessi!

In un momento in cui il territorio scarseggia e l’economia boccheggia, la politica deve focalizzare lo sguardo sugli oltre 1’100 edifici industriali dismessi disseminati su tutto il territorio cantonale, attivandosi concretamente per stimolare, sostenere e promuovere la loro rivitalizzazione, facendo convergere da un lato lo sviluppo economico e, dall’altro, lo sviluppo territoriale. Prima di pensare a nuove costruzioni sarebbe infatti meglio pensare a come riutilizzare l’esistente, dando vita a progetti innovativi di interesse pubblico. Così facendo avremo sia benefici economici – il rilancio degli edifici dismessi con nuove attività, insediamenti, progetti e posti di lavoro – sia territoriali – estetici, ma anche di protezione, razionalizzazione e valorizzazione del territorio e degli spazi pubblici – sia sociali, culturali o turistici, a dipendenza dell’uso che si farà di questi edifici. Oltre Gottardo vi sono già ottimi esempi: vecchi stabilimenti industriali che sono diventati non solo nuove aziende, ma anche appartamenti, teatri, ristoranti, perfino scuole. Anche il Ticino si sta lentamente muovendo in questa direzione, pensiamo ad esempio alla riconversione in loft, museo e luogo per eventi della fabbrica di cioccolato Cima Norma in Valle di Blenio, o alla Polus di Balerna, o ancora alla parziale riconversione da fabbrica di tabacchi a centro per eventi – nominato recentemente il più bello della Svizzera – del Centro Dannemann di Brissago.

Per proseguire su questa via, ho messo sul tavolo due proposte, oggi approvate dal Gran Consiglio (vedi rapporto commissionale di Michele Guerra). Con la mozione inoltrata a nome del Gruppo PLR abbiamo chiesto al Consiglio di Stato non solo di aggiornare lo studio dell’Accademia di architettura di Mendrisio relativo alla mappatura e alle potenzialità degli edifici industriali dismessi, ma anche di impegnarsi per riattivare queste potenzialità attraverso, ad esempio, la creazione di un profilo che agisca sul terreno (finanziato dalla politica economica regionale), l’inserimento degli edifici nel catalogo dei terreni a disposizione degli enti pubblici e la definizione di incentivi pianificatori.

Con l’iniziativa parlamentare – presentata in collaborazione con i colleghi De Rosa, Durisch e Guerra a nome della Commissione della Gestione e delle Finanze – ci siamo invece spinti ancora più in là, proponendo di stanziare un credito quadro di una decina di milioni da destinare a progetti di rivitalizzazione degli edifici industriali dismessi di particolare interesse pubblico, economico, sociale o culturale. Un primo esempio, concreto, lo potremo avere con l’area adiacente all’area multiservizi e al centro di controllo per veicoli pesanti lungo l’autostrada A2 a Giornico, con la riqualifica del sedime della storica Monteforno.

Accogliendo i due atti parlamentari e mettendo in atto una vera e propria strategia di recupero degli edifici industriali dismessi, la politica ha dato oggi prova di grande progettualità, legando economia e territorio, conservazione e innovazione, e, quel che più conta, passato e futuro!

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Onsernone da Gresso

Via libera al credito ponte per portare al voto popolare il Parco Nazionale del Locarnese

Oggi il Gran Consiglio ha approvato il mio rapporto – elaborato insieme al collega Franco Denti – per stanziare 1.5 milioni per i Parchi nazionali di Adula (400’000 CHF) e Locarnese (1’100’000 CHF). Il credito permetterà di concludere con una votazione popolare un lungo percorso di candidatura, come anche di finanziare tutta una serie di progetti sul territorio, dal territorio e per il territorio. Cerchiamo di conciliare protezione del paesaggio e sviluppo economico! Bene inteso, nessun Parco si farà senza la volontà dei cittadini dei Comuni coinvolti.

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formazione

Je suis nagott dal tütt: elogio della complessità

“Io sto con le guardie di confine”; “Io sto con Bosia Mirra”; “Je suis Charlie”: slogan nati per gridare la nostra indignazione. Inizialmente erano potenti, ci univano, ci facevano riflettere e agire, spingendo – si sperava – verso un reale cambiamento, forse anche un ritorno a rinnovata e concreta militanza, alla riscossa di un impegno civico reale, in politica come nel sociale.

Ma questo slancio positivo è stato distorto. Se ne è abusato talmente tanto che oggi questi slogan – che si moltiplicano, per numero ma non per potenza – sembrano frasi stanche, vuote e facilotte. Schierarsi roboantemente diventa quasi facile come indossare un maglione: oggi mi va un bel rosso, domani invece provo il blu, senza troppo impegno. Ma la vita, e i principi, sono complessi, un fardello ben più impegnativo da portare di un indumento. Nella maggior parte dei casi la realtà non è bianca o nera, ma composta da sfumature di grigio e argento: sfumature che rendono impossibile calare un giudizio netto e tranciante nel giro di dieci secondi, nemmeno quando il tema sembra semplice e scontato. Non dobbiamo esprimerci su tutto, quello che invece abbiamo il dovere di fare è cercare di capire prima di sentenziare. E prenderci l’impegno di approfondire. Quanti sono realmente i rifugiati in Ticino? Quanti di questi ottengono risposta affermativa alla richiesta di asilo? Quale è il ruolo del Cantone, o di Caritas o Soccorso operaio? I richiedenti l’asilo possono fare lavori di pubblica utilità, e in che termini? Cosa possono fare i Comuni? Chi sono gli ammessi provvisori? Cosa dicono gli accordi di Dublino? E sui minori non accompagnati? Qual è il margine politico per le autorità a livello cantonale? Apro facebook e sembriamo tutti interessati ed esperti; vado a una serata informativa sul tema e siamo malapena in quindicina in sala. Peccato, perché il cambiamento richiede più della rabbia e dell’indignazione: per il cambiamento, quello vero, sono necessari preparazione, approfondimento, costanza, dialogo, lavoro.

È il momento di rivendicare il diritto a informarci prima di calare un hastag, a tuffarci nella complessità delle situazioni e delle persone prima di improvvisarci – spesso per un periodo troppo breve – hooligan scatenati. E prima, che è ancora peggio, di credere che la vita sia davvero così semplice e riducibile a un “pro” o a un “contro”. Indigniamoci pure, creiamo slogan, ma per cercare il cambiamento, non per pontificare. E ai molti “Je suis…” rispondiamo “Non, je lis, j’écoute, j’essaie de comprendre, je discute, je fais”.

* Pubblicato in Opinione Liberale di oggi

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borse per sito

No alla revisione delle borse di studio

Fra le ragioni della mia firma con riserva posta in calce al rapporto della Commissione della gestione sulla manovra finanziaria vi è sicuramente la proposta legata alle borse di studio. A prima vista può intrigare: tramutare una parte delle borse di studio per il grado terziario in prestiti, responsabilizzando maggiormente gli studenti sull’aiuto allo studio. Tuttavia una lettura più ampia della realtà in cui si muovono studenti e neolaureati pone ben più di un interrogativo sulla necessità di questa funzione pedagogica: l’assegno viene infatti già oggi accordato solamente per la durata regolare della formazione e 3 studenti su 4 svolgono già un’attività lavorativa durante gli studi per autofinanziarsi.

Inoltre, è oggi sempre più difficile trovare immediatamente un impiego anche per chi esce dall’università e, prima di trovare un’occupazione piena, stabile e ben remunerata, si è spesso obbligati a passare da vari stage per maturare quell’esperienza sempre più richiesta anche per un primo impiego. Per non parlare di un’altra realtà del nostro tempo, i posti di lavoro a tempo parziale, che oggi toccano quasi un terzo dei trentenni. Anche perché, ricordiamolo, non è che le borse di studio sostengano proprio tutti, anzi: sono accordate in modo oculato e mirato, destinate a studenti di famiglie della fascia medio-bassa, anche grazie al recente passaggio dal criterio del reddito imponibile a quello del reddito disponibile, scelto proprio per limitare gli aiuti unicamente a coloro che ne hanno davvero bisogno e prevenire eventuali abusi. Ragioni in più, queste, per non banalizzare un debito di 25’000-30’000 CHF – peraltro giudicato medio-alto dalle politiche pubbliche che si occupano di prevenzione dell’indebitamento – sulle spalle di giovani ai quali la società chiede non solo di camminare sulle proprie gambe, ma di costruirsi un futuro professionale e un progetto di vita, investendo nell’economia reale, partecipando alla vita sociale e politica, creandosi una famiglia (ricordo che un recente studio ha confermato che il fattore finanziario incide sulla scelta di fare figli). Tutti obiettivi importanti, necessari, ma non scontati; ancora meno scontati se il giovane parte con un debito sulle proprie spalle, con le inchieste che ci dicono che oltre la metà di chi ha un debito in giovane età lo porta con sé per molti anni, se non per sempre.

Mi chiedo poi se tale misura porti per davvero a un risparmio. Anche in questo caso nutro dei dubbi: per gestire il recupero dei prestiti, infatti, occorrerà più burocrazia e forse un potenziamento dell’apparato amministrativo addetto alle borse di studio (di certo sarà necessario offrire agli studenti una consulenza su come programmare il rientro finanziario, per evitare il perpetuarsi oil peggiorare della situazione). Un recupero che, l’esperienza insegna, non è nemmeno scontato: non è sempre così facile, né gratuito, riscuotere i prestiti, anche senza interessi o con tassi d’interesse minimi. Senza dimenticare che la formula dei prestiti amplia probabilmente la portata delle deduzioni fiscali per i figli agli studi, non eliminando quindi le spese dello Stato, ma semplicemente spostandole.

Un ultimo elemento, che in realtà è il primo e il più importante: intervenire nell’ambito della formazione dei giovani per riportare l’equilibrio finanziario all’interno dello Stato non può che essere l’ultima ratio, l’ultimissimo ambito di intervento, e soprattutto sempre ben ponderato. Il futuro del Cantone dipende soprattutto dalle scelte che fanno e faranno i giovani ticinesi in ogni ambito, dagli studi alla politica. A loro va lasciato campo per formarsi, per sognare, per creare, per organizzarsi e per migliorare la società. Altrimenti smettiamola di dire che i giovani sono il futuro.

*Pubblicato su La Regione Ticino di oggi

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Vitta Pini Ferrara Farinelli

SI del Consiglio di Stato al telelavoro

Lo scorso mese di marzo, con Natalia Ferrara e altri colleghi (Ay – Bang – Beretta Piccoli – Bosia Mirra – Cavadini – Fonio – Garobbio – Gendotti – Ghisolfi – Gianella – Kandemir Bordoli – Käppeli – Kappenberger – La Mantia – Lurati Grassi – Maggi – Merlo – Quadranti – Rückert) abbiamo chiesto al Consiglio di Stato di attivarsi affinché la pubblica amministrazione autorizzi – naturalmente nelle posizioni dove è possibile – uno o due giorni di telelavoro settimanali, con l’obiettivo di migliorare la conciliabilità tra vita professionale e vita famigliare, diminuire traffico e inquinamento, creare opportunità di sviluppo per le zone periferiche, diminuire costi per Stato e aziende e migliorare la qualità di vita dei dipendenti. (vedi mozione) Nello specifico abbiamo chiesto al Governo di procedere prima alla realizzazione di alcuni progetti pilota, e successivamente a un’analisi specifica delle funzioni, all’attuazione di una specifica base legale e a una pianificazione in questo senso, come anche alla formazione e sensibilizzazione dei quadri dirigenti.

Oggi il Consiglio di Stato, prendendo posizione in merito, ha accolto nel principio la nostra proposta, riservandosi di sviluppare nel merito le modalità operative più appropriate. Un apposito gruppo di lavoro interdipartimentale è stato creato con l’intento di attuare una valutazione approfondita sulla fattibilità dell’implementazione, in particolare attraverso l’identificazione dei servizi più idonei e successivamente una fase di test. Sulla base dell’esperienza effettuata – afferma il Consiglio di Stato nel suo rapporto – sarà possibile valutare l’effettiva realizzabilità del concetto e l’estensione ad altri settori, le modalità operative, l’adeguamento delle basi legali e gli strumenti necessari all’eventuale implementazione del telelavoro. Inoltre, il telelavoro è stato inserito anche nelle misure sostenute dal fondo per la mobilità aziendale: le aziende che lo applicheranno per ridurre gli spostamento potranno dunque beneficiare di un incentivo finanziario.

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Dumping CdT

Un Patto di Paese contro il Dumping

Ci sono gli estremismi: da una parte l’iniziativa contro il dumping che vuole creare a suon di decine e decine di milioni uno Stato di polizia e un controllo totale su economia, salari e lavoratori; dall’altra chi non vorrebbe nessun tipo di controllo e nessuna ingerenza dello Stato nei rapporti di lavoro. In mezzo c’è il controprogetto elaborato dal Gran Consiglio e sostenuto dalla quasi totalità dell’arco istituzionale, politico e delle parti sociali.

Un controprogetto che vuole combattere realmente il dumping salariale e sociale aumentando quantità e qualità dei controlli nel mercato del lavoro, fornendo alle Commissioni paritetiche – composte da sindacati e datori di lavoro e incaricate di vigilare sul rispetto dei contratti collettivi di lavoro – e allo Stato – per i settori attualmente non coperti da CCL – ulteriori risorse per svolgere il ruolo di garanti del rispetto delle regole del gioco.

Il controprogetto – al contrario dell’iniziativa, che necessiterebbe dell’assunzione di un centinaio di nuove unità, costerebbe 40 milioni, svilirebbe il partenariato sociale e sommergerebbe di burocrazia Stato e aziende – è immediatamente applicabile e permette con una decina di milioni in 4 anni di migliorare l’attuale sistema di controlli, identificando e combattendo realmente il dumping là dove si presenta. Si va in effetti ad affinare ulteriormente un sistema che da un lato già oggi prevede un alto numero di controlli – quasi il 25% dei datori di lavoro viene controllato annualmente, a fronte di una media svizzera del 5% – e che, dall’altro, in caso di abusi può intervenire con la definizione di contratti normali di lavoro con salari minimi vincolanti (in Ticino ne sono già stati decretati 16) o con sanzioni che, grazie al lavoro di Consiglio di Stato e Deputazione ticinese alle Camere, arriveranno presto fino a 30’000 CHF (mentre ora non si va oltre i 5’000 CHF). Siamo dunque – e grazie al controprogetto voluto dal parlamento cantonale lo saremo sempre di più – all’avanguardia a livello svizzero, a riprova di come il tema del lavoro sia fortunatamente caro a tutti.

*Pubblicato sul Corriere del Ticino di oggi

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Foto CdT

Politica e questione di genere: intervista doppia con Giovanna Viscardi

Sul Corriere del Ticino di oggi un’intervista doppia sulle questioni di genere con la collega di Gran Consiglio, e amica, Giovanna Viscardi. Credo fermamente che permettere di conciliare vita professionale e vita personale/famigliare sia una delle sfide prioritarie della politica di oggi, anche perché tocca da vicino non solo le donne, ma una generazione intera, quella dei trentenni e quarantenni. Da qui, peraltro, la mia battaglia per introdurre nuove modalità di lavoro e regole più flessibili: una su tutte il telelavoro, oggetto di una mozione inoltrata insieme a Natalia Ferrara Micocci.

Per leggere l’intervista clicca qui: Pini – Viscardi CdT

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