Fiscalità

ACCORDO FISCALE CON L’ITALIA SUL MODELLO TEDESCO?

di Nicola Pini, candidato PLR al Consiglio Nazionale

Il 21 settembre 2011 è stato firmato un accordo in materia fiscale tra Svizzera e Germania che apre la possibilità di un nuovo balzo in avanti dopo la svolta del marzo 2009, in cui la Svizzera si era impegnata ad adeguarsi agli standard internazionali dell’OCSE introducendo nell’ambito delle convenzioni bilaterali di doppia imposizione clausole di assistenza amministrativa che aprivano la porta a richieste mirate di informazioni bancarie da parte di Amministrazioni fiscali estere. Questo accordo incorpora una proposta che ha origine in Ticino: il modello Rubik – ideato da Alfredo Gysi e da BSI – che introduce un’imposizione alla fonte secondo le aliquote tedesche per i redditi di conti bancari in Svizzera detenuti da contribuenti tedeschi. L’originalità della proposta è di preservare da un lato la sfera privata del cliente, e di garantire dall’altro le entrate fiscali dell’altro Stato: una win-win-win situazione (per il cliente, la banca, e lo Stato estero) che consente di tenere lontano lo spettro dello scambio automatico delle informazioni. Fin qui, nell’ottica di una auspicata da più parti rapida ripresa dell’Accordo tedesco con l’Italia, tutto bene. Vi sono invece due elementi dell’accordo con la Germania che richiedono una particolare cautela e non possono essere asportati tali e quali in un eventuale accordo con l’Italia, elementi che concorrono a determinante un crescente scollamento tra l’entusiasmo delle prese di posizione ufficiali, e le preoccupazioni di clienti e addetti ai lavori.

1. L’accordo con la Germania prevede una sanatoria per la regolarizzazione dei patrimoni tedeschi non dichiarati in passato, con un’aliquota fino al 34% delle sostanze depositate. Come è noto, in Italia hanno avuto luogo diversi scudi fiscali con aliquote di regolarizzazione assai più allettanti nell’ordine di circa il 5%. In Germania vi è invece una cultura politica assai più rigorosa in materia di amnistie fiscali. A meno di voler incentivare la fuga in massa dei clienti italiani verso altre piazze finanziarie, è inconcepibile immaginare una sanatoria con un’aliquota analoga a quella con l’accordo con la Germania, la stessa va invece fissata nell’ordine di grandezza degli scudi passati, e non è in ogni caso negoziabile un’asticella superiore al 10%.

2. L’accordo con la Germania introduce una forma di assistenza amministrativa allargata, secondo cui, per un certo contingente massimo di casi, la Germania può avanzare richieste di collaborazione alla Svizzera rispetto a determinati contribuenti anche senza dover precisare i motivi che la inducono a ritenere che gli stessi abbiano degli averi in Svizzera. E l’autorità svizzera è poi chiamata a farsi parte attiva per verificare se gli stessi dispongano di relazioni bancarie nel nostro Paese. Si tratta di una modalità di collaborazione che va ben oltre i parametri internazionali dell’OCSE, che esigono che l’autorità richiedente abbia a precisare nella sua domanda i motivi che la portano a ritenere che le informazioni richieste si trovano in Svizzera presso intermediari finanziari concretamente individuabili, se non mediante l’indicazione del nome dell’istituto bancario detentore delle informazioni almeno sulla base di altri elementi. Questo cedimento rispetto alla prassi internazionale dell’OCSE va senz’altro corretto in un eventuale accordo con l’Italia.

3. Infine, nelle contropartite che la Svizzera a giusta ragione rivendica (quindi, sostanzialmente, la cessazione di ogni forma di discriminazione fiscale – in particolare l’esclusione del nostro Paese da “black lists” e l’inclusione in “white lists” – e di criminalizzazione degli intermediari finanziari svizzeri, nonché il pieno accesso di questi ultimi in maniera transfrontaliera ai mercati esteri), va precisato, rispetto a quanto previsto nell’accordo con la Germania, che tale apertura non deve andare a beneficio solo delle banche, ma di tutti gli intermediari finanziari, ivi inclusi quindi i gestori indipendenti e i fiduciari che tanto pesano nel tessuto economico ticinese.

La politica ticinese chiede a gran voce di essere coinvolta nelle negoziazioni con l’Italia: il nostro apporto ticinese non può però limitarsi a uno slancio generico verso un abbraccio precipitoso tra i due Stati, ma deve sapere formare una posizione negoziale precisa (anche nei dettagli e nei cavilli, in cui, come si sa, si nasconde il diavolo) e ferma. La fermezza, e la lucidità, sono necessarie non solo verso l’estero, ma anche internamente verso associazioni nazionali di categoria (leggi ad esempio Associazione svizzera dei banchieri): una cosa è infatti promuovere legittimamente l’interesse dei propri membri, tra i quali spiccano grandi istituti globali (delle autentiche multinazionali in ambito finanziario, il cui raggio di azione è necessariamente assai più vasto di quello svizzero, ecco quindi ad esempio che, parallelamente alla riduzione delle attività in Svizzera, possono aprirsi nuovi scenari di sviluppo per le stesse imprese in Germania, in Italia, o a Singapore), un’altra è mettere in atto una politica di sviluppo territoriale, volta alla creazione di occupazione e valore aggiunto sul territorio. La fermezza e la lucidità sono in parte venute meno negli ultimi tempi, devono essere pienamente recuperate oggi, per tutelare una piazza finanziaria che, con i suoi occupati, il suo indotto, e le sue ricadute fiscali, contribuisce in maniera determinante al tessuto economico-sociale ticinese.

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