Solleva sempre più malumore che riflessione il fatto che nel settore sanitario il ricorso alla manodopera straniera è frequente. Evitando i colpi d’accetta del populismo sensazionalista, rovistiamo invece tra le pieghe del tema alla ricerca di soluzioni tra formazione, pari opportunità tra uomini e donne, lavoro a tempo parziale, diritto al lavoro e, perché no, al tempo libero.
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Pari opportunità
Mimose con troppe spine
(editoriale pubblicato su Opinione liberale, 8 marzo 2013)
È sicuramente una festa della donna a tinte chiaro scure, più che rosee, quella che festeggiamo oggi, 8 marzo 2013. Se da una parte si tende sempre di più verso l’egalité des chances e le buone notizie, anche fresche, non mancano – pensiamo alla recentissima nomina di una donna alla testa del prestigioso Le Monde – dall’altra la parità resta sempre più formale che reale nel mondo del lavoro: certo sempre più donne lavorano, ma raramente lo fanno con funzioni dirigenziali e, in media, lo fanno con uno stipendio inferiore di oltre il 18% rispetto ai loro colleghi uomini. Qualche spina, sulla proverbiale mimosa odierna, l’ha sicuramente favorita anche l’esito della votazione di domenica scorsa, con la maggioranza dei Cantoni – tutti della Svizzera tedesca – che ha respinto l’articolo costituzionale sulla politica familiare. Certo, il fatto che complessivamente a votare SI all’oggetto posto in consultazione popolare siano stati il 54.3% degli Svizzeri e addirittura il 66.7% dei Ticinesi è senz’altro positivo, ma resta pur sempre una magra consolazione. Ad ogni modo, queste cifre mostrano come il tema delle pari opportunità non sia solo sensibile, ma soprattutto condiviso dalla maggioranza dei cittadini: il Partito liberale radicale ticinese – il cui Comitato cantonale si era schierato praticamente all’unanimità a favore della proposta – non può che cogliere questo segnale e impegnarsi con decisione anche su questo fronte. Anche perché – come ho avuto modo di replicare dalle colonne della Regione allo storico Sandro Guzzi Heeb, il quale sosteneva una presunta contraddizione del liberalismo nell’ambito della politica familiare – un liberale deve battersi per una società in cui chiunque – naturalmente anche una donna – possa avere l’opportunità di sfruttare le prorpie capacità e realizzare le proprie aspirazioni e i propri sogni. Al contrario, invece, obbligare una donna a scegliere tra lavoro e famiglia è totalmente illiberale: certo deve poter scegliere, se lo vuole, tra una o l’altra via, ma anche il combinarsi delle due opzioni deve essere possibile, se non addirittura incoraggiato. E se per garantire tale opportunità è necessario un maggiore intervento dello Stato, anche un liberale può accettarlo, perché se da una parte il liberale non crede nello Stato « tutto fare » e nello Stato invadente, dall’altra egli crede in uno Stato snello ma efficace che sia garante delle pari opportunità di partenza e delle condizioni di contesto per lo sviluppo dell’iniziativa privata e la realizzazione dell’individuo. Lo sviluppo sociale è garantito dalle forze individuali, ma queste devono essere nella condizione di manifestarsi: per questo l’intervento dello Stato per permettere alle donne di lavorare e al contempo essere mamma non deve disturbare una coscienza liberale. Anzi. Anche perché questo non porta a una deresponsabilizzazione – altra conseguenza sgradita a un liberale – ma piuttosto a una responsabilizzazione dei genitori che, potendosi appoggiare a delle strutture o a delle misure a loro favore, si assumo a pieno titolo i loro ruoli familiari e professionali. Insieme. Il PLR deve dunque battersi non solo per aumentare e rendere più accessibili gli asili nido (anche aziendali), per sviluppare le mense scolastiche e i doposcuola o per rafforzare la formazione professionale di chi si occupa della cura dei bambini, ma anche per incentivare una maggiore flessibilità occupazionale tramite uno sviluppo del telelavoro e la creazione di più posti di lavoro a tempo parziale. Soluzioni, queste, che porterebbero anche notevoli benefici economici: ogni franco investito in un asilo nido porta infatti tra i tre e i quattro franchi di indotto economico fra aumento del potere acquisto, entrate fiscali e pagamento delle prestazioni sociali. Un buon investimento economico, dunque, oltre che sociale.
Scambio sulla politica familiare con lo storico Sandro Guzzi Heeb (La Regione)