La scuola prima del Franscini
La scuola “ticinese” tra 1500 e 1800: una realtà sociale forse sottovalutata
Nicola Pini e Matteo Rossi
(pubblicato in Azione, 11.12.2007, p. 2)
Vista la cadenza del 150° anniversario della morte di Stefano Franscini, avvenuta nel 1857, non si fa che illustrare il ruolo del Padre della popolare educazione, senza però soffermarsi su quello che era la scuola pre-fransciniana, una scuola che ha fornito allo statista ticinese delle fondamenta sulle quali costruire un sistema scolastico pubblico, solido ed efficace. Premessa: il ruolo del Franscini è stato senza dubbio fondamentale; non solo ha generalizzato la scuola concretizzando l’obbligo di frequenza e l’allargamento dell’istruzione alle ragazze, ma ha pure fatto in modo che lo Stato – il Canton Ticino – ne prendesse saldamente in mano le redini, assicurando dunque un buon funzionamento e, soprattutto, una continuità dell’istituzione scolastica. Ben lungi dal voler sminuire il ruolo avuto dal Franscini, dunque, lo scopo è quello di esplorare la scuola tra il 1500 e il 1800, ovvero prima della sua istituzione da parte dello Stato negli anni trenta/quaranta dell’Ottocento, e quindi prima dell’intervento dello stesso Franscini, che non può essere considerato come l’anno zero dell’istruzione scolastica nella nostra regione.
Bisogna infatti notare come la rete scolastica nei Baliaggi svizzeri d’Italia, che dal 1803 formeranno il Canton Ticino, si è costituita progressivamente già a partire dal XVI° secolo, per raggiungere, alla fine del XVIII°, un livello ragguardevole: lo storico Ivan Cappelli (cfr. Cappelli I., Manzoni C., Dalla canonica all’aula – Scuole e alfabetizzazione da San Carlo a Franscini, Pavia, 1997) mostra come alla fine del Settecento siano ben 238 le scuole riscontrate complessivamente sul territorio. In altre parole, alla nascita del Franscini, sul calare del Settecento, il 90% delle comunità è già stato dotato di una scuola propria. Certo Cappelli si limita a considerare gli atti di fondazione delle scuole, senza preoccuparsi di un eventuale scioglimento di quest’ultime, ma il suo studio lascia comunque intendere una certa tendenza espansiva degli apparati scolastici, come anche – e soprattutto – un crescente interesse manifestato dalle diverse comunità per quanto riguarda l’istruzione.
Come spiegare, dunque, questa precoce e capillare diffusione delle scuole iniziata già nella seconda metà del Cinquecento? Il pregevole studio di Cappelli e Manzoni ci suggerisce tre fattori che, ben radicati e accavallati nella realtà sociale ed economica della regione, hanno spinto le comunità locali a dotarsi di una scuola. Un primo input, riscontrabile soprattutto nel Sottoceneri, è dato dalla presenza dei maestri d’arte (capimastri, tagliapietre, marmorini, stuccatori, ecc.) che, per poter esercitare al meglio le loro attività professionali e artistiche, necessitavano di un’istruzione vasta che spaziava dalla lettura alla scrittura, dal disegno tecnico al calcolo. Secondariamente l’emigrazione, un fenomeno strutturale nelle società alpine e prealpine che non ha risparmiato la nostra regione: saper leggere e scrivere per avere migliori possibilità lavorative all’estero, per poter controllare i propri affari autonomamente ma soprattutto per poter comunicare epistolarmente con i famigliari. Da notare come non solo l’emigrazione qualificata dei cosiddetti maestri d’arte sia stato un fattore propulsore dell’istruzione, ma pure l’emigrazione non qualificata, quella degli spazzacamini della Valle Verzasca per intenderci, che ha permesso alle Valli di raggiungere un notevole livello di insediamenti scolastici. La condizione di piccoli proprietari terrieri costituisce il terzo fattore di spinta verso la scolarizzazione: per amministrare e gestire a dovere i propri possedimenti l’istruzione di base era necessaria, se non fondamentale. Raffaello Ceschi (Ceschi R., “La scuola per formare il cittadino”, in Nel labirinto delle valli. Uomini e terre di una regione alpina: la Svizzera italiana, Bellinzona, 1999) aggiunge infine un fattore politico, l’autogoverno: l’amministrazione del territorio e dei beni comuni era infatti opera di istituzioni locali e democratiche – alle quali evidentemente si sovrapponevano i landfogti, le autorità designate dai cantoni elvetici – composte, a turno e secondo cariche rotative, da alcuni membri della comunità stessa. Ciò imponeva dunque la presenza di individui forniti dell’istruzione basilare e in grado di assumere a turno le diverse cariche amministrative e cancelleresche. Anche se, paradossalmente, il sindaco di Bodio, paese natale del Franscini, si dichiara essere, ancora nel 1821, analfabeta.
La formazione di un numero importante di scuole nella regione è dunque il frutto di una domanda proveniente dal basso, dalle comunità, dai singoli cittadini, dalla popolazione stessa in ragione di un contesto sociale, economico e politico particolare che richiedeva, per un motivo o per l’altro, un’istruzione di base. È la società stessa – o quantomeno una parte di essa – che esigeva una scuola, che ne sentiva il bisogno vitale, come lo testimonia d’altronde il numero importante di lasciti o legati in suo favore.
Resta da vedere chi ha risposto a questa richiesta, a questa esigenza di istruzione da parte delle comunità. Se da un lato il ruolo dello Stato è stato pressoché trascurabile sino all’intervento del Franscini – i Cantoni Sovrani e la Repubblica Elvetica non hanno agito concretamente, limitandosi a qualche sporadico proclamo, mentre la legge promulgata nel 1804 dal neonato Canton Ticino non conosce, nella pratica, una reale applicazione – dall’altro il ruolo della Chiesa è stato più rilevante, anche se, per la scuola del futuro Ticino, non fu tanto importante la Chiesa in quanto istituzione, ma piuttosto la sua base, composta dai parroci di paese e quindi da quella parte del clero più vicina alla gente, più a contatto con la realtà sociale del paese e dunque più incline ad esaudirne le richieste. Il parroco, in effetti, cristallizza in sé la figura del maestro per eccellenza della scuola pre-fransciniana, in ragione della sua disponibilità, del basso costo economico (spesso l’obbligo di insegnare era inserito nei doveri di parroco, e dunque gratuito) e del suo stato culturale elevato, specialmente dopo la Controriforma voluta dalla Chiesa per contrastare la Riforma protestante.
Nell’ottica di un discorso più qualitativo, Cappelli distingue le scuole informali da quelle formali: se le prime dipendono esclusivamente dall’arbitrio del cappellano, le seconde sono rette, alla loro base, da un documento che impone al parroco di tenere a scuola li filiuoli; una specie di contratto – il capitolato – di cui il più antico, datante 1545, obbliga il parroco di Meride ad insegnare ai ragazzi del paese a leggere, scrivere e le buone maniere. Le scuole formali, sempre più numerose con il passare del tempo, sono evidentemente le più sicure e durature in quanto poste sotto il controllo e la tutela costante della comunità che, in caso di insoddisfazione, poteva rivolgere una lamentela direttamente al vescovo. La frequentazione delle lezioni poteva essere a pagamento oppure gratuita: in quest’ultimo caso il costo del prete-maestro era assorbito da qualche lascito/legato oppure pagato dalla comunità stessa attraverso i vicini, gli odierni patrizi. Da notare come nel Sottoceneri dominino le scuole a pagamento in ragione della grande importanza dell’artigianato nella regione: l’artigiano ha la volontà di garantire un buon lavoro ai discendenti e soprattutto possiede i mezzi finanziari per mandare il proprio figlio a scuola; al contrario nelle Valli sopracenerine, vista la povertà che vi regna sovrana, prevalgono le scuole gratuite: una scuola a pagamento sarebbe al di sopra delle possibilità degli abitanti delle Valli a volte già di per sé reticenti – si consideri che, anche se gratuita, la scuola costituiva un manco di guadagno visto che i ragazzi non lavoravano e, al contrario, si limitavano a consumare. Anche se, comunque, la copertura scolastica, durante l’anno come giornalmente, era strettamente legata, se non dettata, dai bisogni economici della comunità e dunque dall’agricoltura o dall’allevamento.
Si nota dunque una scuola che si plasma, che si modella in funzione della società: una scuola che deve in primo luogo rispondere alle esigenze socioeconomiche delle comunità che ne favoriscono la fondazione e che ne assicurano il mantenimento. Una scuola sulla cui efficacia si può certo disquisire e dibattere, specialmente per quel che concerne la scarsa frequentazione o i modelli didattici d’insegnamento, ma comunque una realtà concreta (dominano infatti le scuole formali), capillarmente diffusa, fortemente voluta dalle comunità e, come detto, strettamente funzionale ai bisogni della società: se il Ticino è a metà Ottocento una delle aree più alfabetizzate d’Europa lo si deve anche alla scuola pre-fransciniana. L’importante intervento del Franscini, dunque, sistematizza, generalizza e istituzionalizza una scuola che ha già mosso, autonomamente, qualche (timido) passo.