Nicola Pini
Candidato al Consiglio di Stato per il Plr
1 Si dice manchi oggi in Ticino una ‘cultura politica’. Condivide?
La cultura politica non può scindersi dalla cultura democratica, la quale non può sopravvivere senza i partiti, che a loro volta non possono sopravvivere senza il coinvolgimento dei cittadini. Il pensiero liberale e democratico deve dunque tornare ad aprirsi e a riproporre con forza i suoi valori fondanti. E qui non penso solo a libertà, responsabilità, solidarietà e giustizia, ma soprattutto al gusto del dubbio e del dialogo, all’approfondimento, alla tolleranza e al rispetto, sia di chi la pensa diversamente sia delle istituzioni, alla collegialità, alla trasparenza, alla voglia di costruire. Solo così rimetteremo in sesto una democrazia purtroppo oggi malaticcia.
2 Come giudica i rapporti fra Canton Ticino e resto della Confederazione?
Buoni, ma da coltivare maggiormente. Da un lato la Confederazione fatica a capire alcune peculiarità del Ticino, dall’altro il Ticino tende a ricercare sempre delle scorciatoie. C’è chi dice che bisogna battere i pugni sul tavolo per farsi rispettare da Berna, come se l’arroganza pagasse. Io credo invece che dobbiamo presentarci a Berna con argomenti, proposte e persone credibili, magari anche con alleanze puntuali con altri Cantoni: solo così si è ascoltati a Berna. Ho già iniziato a lavorare in questo senso, incontrando consiglieri di Stato di altri Cantoni e portando in Ticino Pierre Maudet, che prima o poi vedremo in Consiglio federale. Tornare a un’empatia vitale è la strada, senza accuse velate e piagnistei.
3 Ticinesi vittime o autolesionisti?
Il ticinese, dopo un passato di coraggio e senso dello Stato, sta vivendo una crisi di fiducia – in se stesso e negli altri – a causa delle false identità, delle denunce strumentali e delle promesse da marinaio portate avanti dall’antipolitica. Si tende così al disfattismo e all’aggressività di chi crede che siano sempre gli altri a doverci salvare la vita (lo Stato) o che siano altri che ce la avvelenano (gli stranieri, l’Europa). Mai come oggi, però, abbiamo la necessità di prendere in mano il nostro futuro, senza paura di rimetterci in discussione: finite le rendite di posizione in ambito economico, finanziario e turistico, sta a noi decidere che Ticino vogliamo. Io lo voglio libero, ottimista, orientato al futuro, aperto e competitivo.
4 Come si conserva l’autonomia cantonale? Cosa non funziona oggi nel federalismo?
Il federalismo è basato su chiari compiti delegati ai Cantoni, che hanno un propositivo margine di decisione. Sempre più, la Confederazione tende a occupare mansioni che prima non le competevano, col risultato di applicare soluzioni che vanno bene a Zurigo ma non sono altrettanto valide in Ticino o nel Giura. Dall’attenzione a tutte le diversità, ora il federalismo tende a omologare, il che è negativo. Credo nel principio della sussidiarietà, inteso come lo svolgere il compito al livello istituzionale più funzionale e prossimo al cittadino: e questo non solo tra Confederazione e Cantoni, ma anche tra Cantoni e Comuni.
5 Favorevole o contrario agli Accordi bilaterali con l’Ue?
Favorevole. Che poi si possano sistemare alcuni aspetti è chiaro: come in ogni rapporto con gli altri, ogni giorno è buono per migliorare. Dobbiamo combattere l’effetto sostitutivo, il dumping salariale e il traffico parassitario là dove ci sono, ma non possiamo fare a meno degli Accordi bilaterali. Anche se impopolare, occorre ribadire che in Ticino la disoccupazione sì aumenta, ma meno rispetto a chi ci circonda; che sì dal 2008 i frontalieri sono aumentati di 18’000, ma che i posti di lavoro in più sono stati 28’000 (10’000 sono dunque andati a residenti); infine che il salario mediano dal 2002 è aumentato di 700 franchi. Chi dice che queste sono cose scontate imbroglia i cittadini e mette a repentaglio il futuro del nostro Paese.
6 Valore aggiunto. Ci faccia un esempio.
Abbiamo diverse aziende nell’ambito dell’elettronica e della meccanica, come nel life sciences e nel biomedicale. Dobbiamo poter attirare e creare quelle aziende innovative che sapranno rilanciare la nostra economia uscendo da quella prigione in cui si è rinchiusa dove il solo “valore aggiunto” sembra essere la manodopera a basso costo. Ma non è facile, perché non c’è la coda di imprese virtuose e le idee geniali non cadono dagli alberi: per questo dobbiamo continuare a investire massicciamente nella formazione, nella ricerca e nelle start-up.
7 Più o meno prestazioni dello Stato e perché?
Non è questione di più o meno, ma di come e quando. Lo Stato deve investire in salute e istruzione, ricerca e innovazione, cultura e lavoro, senza togliere nemmeno un franco, anzi aggiungendone. Invece di sparpagliare contributi a tutti, anche a chi non ne ha (più) bisogno, lo Stato deve fornire aiuti mirati e al contempo favorire la creazione di posti di lavoro con l’intento di appianare le diseguaglianze sociali.